Rivivere questo golpe di stato, così come i quasi tre anni di destabilizzazione del governo di Salvador Allende, e raccontare queste esperienze mezzo secolo dopo è, più che una testimonianza personale, una richiesta di giustizia e di memoria per le migliaia di vittime della dittatura cilena.
Dopo 50 anni e per la prima volta, Omar Sepúlveda, cileno, e Jorge Luna, peruviano, allora giovani reporter di Prelagoch (identificazione interna della nostra agenzia di inviati), hanno rievocato, dal Cile e da Cuba, via internet, alcuni momenti di quel giorno.
Nell’ufficio hanno fatto irruzione 21 soldati – provenienti dal Palacio de La Moneda bombardato – che avevano appena brutalmente distrutto l’attigua sede della rivista Punto Finale, diretta da Manuel Cabieses, e che sono venuti alla nostra porta dandogli dei colpi con il calcio dei fucili. Hanno preteso che scendessimo “fino al camion”, che ci avrebbe portato chissà dove.
Durante questa operazione militare, nella quale ci rifiutammo di abbandonare l’ufficio dell’agenzia, erano presenti, oltre al nostro corrispondente principale Jorge Timossi, giornalista e scrittore argentino, i nostri colleghi Pedro Lobaina e Mario Mainadé, cubani, e Orlando Contreras, cileno, che era arrivato proprio il giorno prima.
MINUTI PRIMA DEL RAID
L’unica donna della squadra, la giornalista cilena Elena Acuña, ha dovuto lasciare a malincuore l’ufficio su ordine di Timossi, che sospettava un’imminente effrazione e, per tutelarla, le ha chiesto di conservare i documenti dell’agenzia per un’eventuale consegna alla sede de L’Avana.
Ha compiuto con successo questa pericolosa missione, nonostante abbia dovuto passare davanti all’ingresso principale del Palazzo del Governo assediato, mentre c’era una breve cessazione del bombardamento aereo.
Timossi ha parlato al telefono con i consiglieri di Allende circondati nella Moneda in fiamme ed abbiamo trasmesso le notizie al nostro corrispondente a Buenos Aires, il giornalista cubano José Bodes Gómez, fondatore dell’agenzia, che li ha trasmessi a L’Avana.
LA SOLIDARIETÀ
Prelagoch è stato oggetto di numerosi gesti di solidarietà da parte di molti cileni preoccupati per la nostra incolumità prima e durante il raid.
Jorge Luna: Ricordo sempre Augusto Carmona (El Pelao) e la sua compagna Lucía Sepúlveda, redattori di Punto Final, come arrivarono presto per offrire la loro collaborazione, nonostante il pericolo che rappresentava venire alla nostra agenzia.
In più occasioni l’abbiamo definita “la trappola per topi”, poiché avevamo istruzioni di non opporre resistenza e di non abbandonare l’ufficio (?), cosa apparentemente contraddittoria ma che, alla fine, ci ha salvato la vita.
Quando venne confermata la morte di Allende – notizia alla quale nessuno volle credere e tanto meno trasmettere – Timossi chiese ai suoi amici di ritirarsi per evitare ulteriori rischi, ma avevamo foto di queste persone, che questo stesso giorno si diedero alla clandestinità e si unirono alla resistenza antifascista.
Quattro anni dopo, “El Pelao” fu assassinato per le strade di Santiago.
Timossi ha anche detto ai membri della squadra che chiunque volesse ritirarsi doveva farlo in questo momento. Nessuno si è ritirato.
L’INCURSIONE
I soldati sono entrati gridando, dandoci spintoni e mettendoci contro il muro, le mani sulla testa, con i fucili puntati sulla nostra schiena, in un finto plotone di esecuzione aggressivo. Dopo averci perquisiti, ci hanno ordinato di sederci per terra in angoli diversi.
In seguito, hanno messo Lobaina, il più flemmatico tra noi, e Mainadé, il più spiritoso, come “scudi umani” sul balcone durante una sparatoria prolungata. Lo hanno fatto anche con Contreras, che ha avvertito “Ehi, cosa fate, i proiettili ci colpiranno”, affermazione che i soldati hanno ignorato.
IL CHE
Il suono monotono della telescrivente e dei nastri gialli perforati – che per i militari erano una sorta di trasmissione in codice – spaventarono le truppe e il loro sergente cercò di calmare la sua rabbia ed ha rotto contro una sedia un ritratto del comandante Ernesto Che Guevara.
Sepúlveda non riuscì a contenere la sua indignazione e avanzò determinato ad affrontare il soldato. Ma qualcuno gridò: “Omar, è solo una foto!”, così ha trattenuto il suo impulso.
Omar Sepúlveda: Col tempo ho capito che la mia reazione aveva messo in pericolo tutti noi, ma in quel momento ho risposto a ciò che consideravo un insulto alla memoria del Che. Vedendo il suo ritratto distrutto a terra, ho agito e non ho pensato, cosa che avrebbe potuto costarci caro.
LE IMMAGINI
Jorge Luna: Omar, anche il tuo dialogo concitato con i soldati nella camera oscura del nostro laboratorio fotografico è stato pericoloso. Vi ho visti discutere, ma senza poterli ascoltare.
Omar Sepúlveda: È perché qualcuno ha detto che c’erano delle foto in fase di sviluppo, quindi non bisognava accendere la luce. I soldati, al buio, controllarono e ruppero tutto. Non lo sapevo, ma c’era una pistola nascosta nella lampada di sicurezza della camera oscura e, se si fosse accesa la luce, il suo profilo sarebbe stato nero contro il paralume di plastica arancione.
Jorge Luna: Quella mattina ho tirato fuori la mia “Pentax” con un teleobiettivo e, in tutta fretta, ho filmato un’operazione militare in Calle Ahumada, incluso un poliziotto sdraiato sul tetto di un’auto mentre sparava in tutte le direzioni. Ho visto quell’immagine pubblicata successivamente su vari mass media.
NESSUNO DORME
Quella notte dovevamo fare il primo turno noi due, davanti alla porta d’ingresso dell’ufficio, in modo che gli altri colleghi potessero dormire un po’. Eravamo tormentati dal rumore sorprendente del motore dell’ascensore dell’edificio, situato all’ultimo piano, in mezzo al silenzio di un condominio che in quel momento avrebbe dovuto essere vuoto.
I VICINI
Mercoledì 12 abbiamo mangiato uno spuntino per la prima volta da lunedì, grazie ad “Arturo”, un militante guatemalteco della resistenza cilena, nascosto in un altro piano dell’edificio, che ci ha sorpreso con una grande casseruola di riso con lenticchie e uno scatolone con 24 bottigliette di Coca Cola.
LA PARTENZA
Giovedì 13, più di 48 ore dopo il raid, abbiamo continuato a trasmettere notizie via telefono in Argentina. Successivamente ci dissero che saremmo stati trasferiti alla sede diplomatica cubana, a circa 15 chilometri di distanza, per poi partire di notte ed essere espulsi verso L’Avana.
Omar Sepulveda: Quel pomeriggio ho chiamato i miei genitori e la mia fidanzata di allora – oggi mia moglie – per salutarli l’ultima volta.
Un colonnello e la sua scorta, in abiti civili, sono arrivati all’imbrunire, insieme al console cubano Jorge Pollo. I miei cinque compagni potevano andare via, ma io non ero nella lista. L’alternativa era restare in ufficio o recarsi in ambasciata come richiedente asilo.
Timossi mi ha chiesto di occuparmi della chiusura dell’ufficio e della cessazione del personale di supporto.
L’emozione si è trasformata in gioia. Nelle settimane successive ho aiutato Elena Acuña e la sua famiglia a lasciare il paese e poi, con il prezioso aiuto di Manuel Villar, giovane telescrivente cileno divenuto un ottimo giornalista di Prensa Latina, mi sono dedicato a portare a termine il compito affidatomi: chiudere temporaneamente l’ufficio dell’agenzia.
Per fortuna, poco dopo, ho potuto lasciare Cile e unirmi, per più di 20 anni, all’opera di Prensa Latina in vari luoghi dell’America Latina.
L’AGENZIA CHE NON PUO’ ESSERE SILENZIATA
Come unici sopravvissuti a questi eventi, speriamo che questo dialogo contribuisca alla ricca memoria storica di Prensa Latina e che serva come omaggio a quattro mani ai nostri compagni defunti, che meritano onore e gloria.
Omar Sepúlveda e Jorge Luna, rispettivamente collaboratore e giornalista di Prensa Latina