venerdì 26 Luglio 2024
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Il dramma dei rifugiati siriani

Il ministro libanese di Relazioni Estere ed Emigrati, Gebran Bassil, ha messo il dito nella piaga, quando ha detto che i rifugiati nel Libano, in proporzione, sono come se gli Stati Uniti ricevessero 150 milioni di persone con questo status. 

 
Queste dichiarazioni sono state formulate dal cancelliere in una visita alla nazione settentrionale ed ha voluto fare riferimento alle politiche dal presidente Donald Trump quando si lamenta per la situazione degli emigranti negli Stati Uniti, che in realtà non sfiora neanche da lontano il dramma che vivono le nazioni del Medio Oriente. 
 
Forse esagerò un po’, perché in realtà i rifugiati siriani rappresentano il 20% della popolazione totale, benché di per sé il nostro paese è già un luogo sovrappopolato da persone che fuggono da conflitti diversi. 
 
In questa situazione si trovano i palestinesi, che hanno stabilito vari accampamenti, al principio in maniera temporanea, ma sono già passate decadi dall’arrivo dei primi e non si vede una soluzione a breve termine. 
 
I siriani che fuggono in Libano ed in Giordania si trovano ogni volta con maggiori difficoltà per attraversare le frontiere a causa del fatto che le autorità cominciarono ad applicare restrizioni per frenare le entrate di massa. 
 
Secondo le cifre facilitate da un Centro di Politica Migratoria, gli accolti nelle due nazioni del Medio Oriente superano di gran lunga il numero di quelli che arrivarono nell’Unione Europea, in Norvegia ed in Svizzera. 
 
Passare la linea di confine è solo una delle difficoltà che affrontano gli emigranti entrando nei due stati vicini, perché i governi libanese e giordano non firmarono la Convenzione dello Statuto dei Rifugiati del 1951, de L’Aia, e non si sentono impegnati con i diritti di questi sfollati. 
 
Libano non concede status di rifugiato e la sua accettazione nel territorio dipende dalla capacità economica del momento o dall’opinione pubblica nazionale. 
 
A giudizio del ministro libanese di Relazioni Estere il tema non è l’assistenza che si riceve per una permanenza nel paese, bensì come aiutare a che ritornino in Siria il più presto possibile. 
 
Nel piano economico, tanto nel caso giordano come nel libanese, la relazione della Banca Mondiale e dell’ACNUR di finale del 2016 allerta sugli alti indici di povertà tra gli arrivati dalla Siria ed, inoltre, vaticina un peggioramento delle condizioni nei prossimi anni. 
 
Questa previsione si deve all’inadempimento da parte della comunità internazionale dei suoi obblighi e dei suoi impegni con quelli che, in condizioni economiche e sociali molto inferiori a quelle dell’Europa, invece, accolgono la maggior parte dei rifugiati siriani. 
 
C’era un impegno di aiuti per la somma di sei mila milioni di dollari per il 2016 ed una cifra simile addizionale, che sarebbe stata effettiva prima del 2020, ma fino ad ora non si è realizzato nulla. 
 
A questo finanziamento si univano prestiti in condizioni favorevoli per il valore di 41 mila milioni di dollari, ma neanche questi non sono mai stati assegnati. 
 
I fondi per incominciare gli aiuti per l’educazione dei rifugiati, sono stati solo la terza parte di quanto promesso e 800 mila bambini continuano senza scuole, riportano i dossier dell’ONU. 
 
In una conferenza sulla Siria celebrata a Bruxelles agli inizi di aprile del 2017, i donatori riconobbero che anno dopo anno consegnavano alcuni aiuti, però molto meno della cifra necessaria. 
 
E nel dicembre scorso, l’ufficio dell’Alto Delegato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, divulgò che l’appello di emergenza per aiutare i rifugiati siriani ha ricevuto solo il 56% di quanto sia necessario. 
 
Neanche la comunità internazionale risponde ad uno dei suoi obblighi basilari, l’ubicazione nei terzi paesi per alleviare l’enorme pressione sul Libano e sulla Giordania, le cui economie non sopporterebbero un’altra ondata di sfollati. 
 
Armando Reyes Calderin, giornalista del dipartimento Africa-Medio Oriente di Prensa Latina

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