Il 26 settembre si sono svolte manifestazioni ed altre forme di protesta, dirette dai parenti dei giovani che non indietreggiano nel reclamare per la vita dei loro figli.
A loro si sommano organizzazioni sociali che li hanno accompagnati a dispetto dei tentativi di screditare una causa che trascende le frontiere del Messico.
È una giornata per ricordare le circostanze in cui gli studenti di pedagogia sono stati attaccati con accanimento la notte del 26 settembre 2014 nella città di Iguala, dove il sindaco e sua moglie mantenevano forti nessi col crimine organizzato.
La stessa cosa succedeva coi capi e poliziotti di questo municipio e di altri adiacenti, incaricati a consegnare i giovani a sicari dei Guerreros Unidos, organizzazione criminale che si disputa il territorio ed i mercati della droga con un altro cartello, Los Rojos.
Molta controversia generò l’investigazione ufficiale e quella di istanze internazionali.
Secondo il governo del presidente Enrique Peña Nieto, gli studenti di pedagogia sono stati assassinati ed i loro corpi cremati nella discarica municipale di Cocula. Quindi i resti furono buttati in sacchetti per la spazzatura nel fiume San Juan.
Questa versione è stata discussa dal Gruppo Internazionale di Esperti Indipendenti il cui mandato culminò per decisione governativa.
La cosa certa è che esistono più di un centinaio di presunti partecipanti nel crimine di Iguala dietro le sbarre, ma i corpi degli studenti non appaiono, salvo una frazione di scheletro che permise di identificare per prove forensi e del DNA uno di loro.
Si tratta di Alexander Mora Venancio, di 21 anni, orfano di madre, che viveva insieme a suo padre in una casa del Pericon, a Tecoanapa, nello stato messicano di Guerrero.
Chi lo conobbe afferma che Alexander era un giovane educato e di famiglia umile. Lui, i suoi due fratelli e suo padre, un tassista che usava un veicolo prestato per lavorare, vivevano in una casa con soffitto di calamina.
Abbandonò l’Università Autonoma di Guerrero, dove seguiva Sviluppo Regionale, perché voleva studiare come maestro nella Scuola Normale Rurale Raul Isidro Burgos, ad Ayotzinapa.
La notte della tragedia accompagnava decine dei suoi compagni di studio che abbordarono autobus e si diressero ad Iguala per protestare di fronte al comune per le condizioni orribili del loro luogo di studio.
A Iguala si stava svolgendo una celebrazione ufficiale diretta dal sindaco e da sua moglie. Loro diedero l’ordine di reprimere gli studenti di pedagogia che furono ricevuti a colpi di armi da fuoco.
I poliziotti municipali spararono anche contro un autobus che trasportava una squadra giovanile di calcio ed un taxi.
Lì morirono sei persone e più di una decina risultarono ferite.
Ma appena cominciava la battuta di caccia degli studenti di pedagogia di Ayotzinapa.
Un gruppo di loro fu rinchiuso in un camion e consegnato ai sicari di Guerreros Unidos.
Secondo confessioni dei sicari, divulgate dalla Procura Generale della Repubblica, alcuni dei giovani erano già morti per asfissia. Altri li finirono con un colpo di pistola alla testa.
L’assassinio di Iguala evidenziò la penetrazione del crimine organizzato negli strati del potere pubblico e politico.
Determinò perfino che i partiti politici prendessero misure rispetto alla designazione dei candidati nei posti di elezione popolare.
Nel piano internazionale, il caso Ayotzinapa, così come è conosciuto, evidenziò uno dei volti oscuri del Messico: quella dei desaparecidos ed anche l’impunità che occulta questi crimini.
La manifestazione a Città del Messico il 26 settembre è passata davanti all’Antimonumento che ricorda gli studenti scomparsi. Si tratta di una scultura, un 43, che si alza nella Passeggiata della Riforma.
Ma nessuno sa quanti anni saranno necessari per sapere che cosa è successo coi ragazzi della scuola Raul Isidro Burgos.
Messico non solo perse 43 maestri, perse anche credibilità nel suo sistema politico, di governo pubblico e di giustizia. Nel frattempo, loro non sono qui con noi.
Orlando Oramas Leon, corrispondente di Prensa Latina in Messico