venerdì 26 Luglio 2024
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Ana Esther Ceceña: quello di cui abbiamo bisogno oggi sono movimenti di battaglia

Per Ana Esther Ceceña Martorella, dottoressa in Relazioni Economiche Internazionali ed analista dell'Osservatorio Latinoamericano di Geopolitica dell'Università Nazionale Autonoma del Messico, c'è una regressione alle peggiori politiche imperialiste e pertanto sono più importanti che mai i movimenti di battaglia. 

 
Si tratta di una dinamica nella quale prevale l’imposizione politica e regole del gioco che colpiscono la regione, fatto che provoca che America latina ed i Caraibi si muovano in un contesto complicato. 
 
La dottoressa Ceceña Martorella, nata a New York nel 1950 da genitori messicani e lei stessa ha la nazionalità messicana, è un’economista esperta in geopolitica con l’avallo di essersi laureata nell’Università Parigi I-Sorbona, la cui linea di lavoro si incentra nello studio delle risorse naturali, movimenti sociali, militarizzazione ed egemonia mondiale. 
 
È una personalità molto conosciuta in Messico e nella regione, e si distingue per mantenere una stretta relazione coi movimenti sociali dell’America Latina e dei Caraibi. Ha partecipato attivamente al Forum Sociale Mondiale e nel Forum Sociale delle Americhe dai loro inizi, ed ha fondato la Campagna per la Smilitarizzazione delle Americhe. 
 
Dalla sua creazione nel 2005 è insegnante della Scuola Nazionale Florestan Fernandes del Movimento dei Lavoratori Rurali Senza Terra, membro della Rete di Studi dell’Economia Mondiale e della Rete di Economia Globale-Global Economy Network e nel 2010 è stata integrante della Giuria del Premio Libertador al Pensiero Critico instaurato nel 2005 da Hugo Chavez. 
 
In questa intervista, l’accademica messicana abborda, con la sua profondità abituale, la realtà latinoamericana, che sta sopportando la presidenza di un neo conservatore negli Stati Uniti. 
 
PL: Come si può capire il contesto dell’America Latina e dei Caraibi davanti alla geopolitica dell’amministrazione repubblicana di Donald Trump? 
 
AEC: Siamo in un contesto complicato per l’America Latina perché siamo ritornati ad una dinamica imperialista, di imposizione di politiche e regole del gioco chiaramente non condivise dalla regione, progettata per i grandi poteri negli Stati Uniti: Dipartimento di Stato e Dipartimento di Difesa, più tutta la cupola. 
 
C’è un insieme di guerre convenzionali, guerre non dichiarate, che ha continuato a trasformare la geografia di tutto il pianeta negli ultimi tempi. Ed in questo contesto, America Latina ed i Caraibi erano un po’ più stabili perché non c’erano dispute confinanti o di ridefinizione regionale. 
 
A partire dal 2000 e soprattutto dal 2006 e dal 2009 cominciano un insieme di politiche nuove in America Latina. Incominciano a Sucumbios, con l’attacco della Colombia all’Ecuador, per inaugurare la possibilità della famosa guerra preventiva, la guerra unilaterale. 
 
Questa guerra di uno stato contro un altro per sicurezza nazionale, che facevano solo gli Stati Uniti fino a quel momento, ma che improvvisamente Israele e Colombia, i loro alleati, hanno incominciato a sperimentare. 
 
Ci fu un’effervescenza in America nel 1994 col sollevamento Zapatista, con tutti i cambiamenti spinti dal Venezuela, dall’Alba, dalla battaglia contro l’Alca; tutto quello che è accaduto in questo periodo per ostacolare i progetti minerari, con movimenti organizzati e ben attivi. 
 
Il governo degli Stati Uniti era preoccupato, infatti stava mettendo dei limiti ai movimenti nel piano istituzionale con l’Alca, e così aiutava le corporazioni nel continente: minerarie, industrie petrolifere, industrie od aziende molto connesse con la politica statunitense e che stavano avendo problemi nella regione. 
 
A partire dal 2008 c’è un cambiamento sostanziale, è il momento in cui cercano di installare le basi militari in Colombia per minacciare Venezuela, ma anche altri paesi dell’area. In realtà quello che stava succedendo era un ritorno dei Gran Caraibi, intesi come il bacino amazzonico, il golfo del Messico, una regione che è diventata particolarmente strategica per la presenza del petrolio e di altre risorse minerali. 
 
Sono incominciate le iniziative di sicurezza statunitense: l’iniziativa di sicurezza dei Caraibi, dell’America Centrale; l’iniziativa di sicurezza di Merida in Messico, congiunte al Piano Colombia, che esisteva già. 
 
Si svolgono progetti -cominciando contro Cuba – alternativi e provocatori che iniziano ad essere molto efficaci per mettere ostacoli a tutta la politica che le amministrazioni statunitensi comandavano storicamente nel continente e che si erano trasformate in qualcosa da combattere. 
 
Dal mio punto di vista, l’hanno fatto in maniere diverse: una è la minaccia, l’intimidazione, i cerchi militari che hanno imposto, ma anche col “soft power”, con l’incantesimo. L’idillio tra l’amministrazione di Obama e Cuba è parte di questo “soft power”. L’idea era affascinarci, ingolosirci, offrire la loro amicizia. 
 
Tutto è già cambiato. Gli ultimi episodi in Venezuela come focolaio di attacchi sono stati complicati perché il gran potere militare ed i suoi strateghi non sono stati capaci di dominare il popolo, come loro pensavano di poterlo fare. 
 
Nell’ultimo tentativo di golpe di stato in Venezuela c’è stato chiaramente un errore di calcolo, perché non hanno preparato bene le forze interne, non hanno saputo muovere le dinamiche esterne ed improvvisamente si provoca un fallimento strepitoso che, curiosamente, proviene proprio dagli operatori vicini all’anticastrismo negli Stati Uniti. 
 
Nel caso di Cuba pensano che con una caramella buttano via la Rivoluzione cubana e realmente la caramella può causar loro dei problemi, non riescono a trovare il punto per penetrare. Il problema è che se non riescono ad entrare in Venezuela o disporre del suo petrolio, che cosa possono fare: tentare di rompere i suoi vincoli di solidarietà con altri paesi. 
 
E la stessa cosa succede per Cuba. L’obiettivo è tagliare la relazione col Venezuela, la somministrazione di petrolio venezuelano, le telecomunicazioni, tutti questi programmi, come quello dei medici, importanti per entrambe le nazioni. 
 
PL: Secondo lei, che implicazioni ha la politica del governo statunitense per il popolo cubano dentro il processo rivoluzionario che dura da più di sei decadi? 
 
AEC: Lì si uniscono varie cose, per pensare alla Legge Helms Burton. C’è la storia senza Fidel -prima con lui vivo ma fuori dal governo -, è un cambiamento molto importante, visto da fuori. 
 
Ci sono altre generazioni nella società cubana, quelle che arrivano al governo e quelle che stanno discutendo per strada. C’è stato tutto questo cambiamento con le Linee Guida, con la Costituzione, che provocano una specie di ricomposizione dell’individuo cubano, della Rivoluzione cubana. 
 
E gli Stati Uniti stanno scommettendo su questo momento perché la visione è la seguente: è un individuo che nonostante tutto non si consolida ancora, perché ha parti nuove, perché la gioventù si incorpora con nuove idee, con altre illusioni, con un’altra ambizione di futuro; rompendo certe regole, benché sia di forma non violenta o distruttiva, ma sì esponendo cose distinte. 
 
Allo stesso tempo, anche la generazione di governo ha maniere differenti di vedere le cose. Finché tutto ciò non finisca di formarsi completamente, lì bisogna entrare, bisogna attaccare. Dal mio punto di vista, la Legge Helms Burton è questo tentativo di entrare e di attaccare. 
 
Ovviamente è molto aggressiva perché entrare a reclamare la proprietà del suolo è il colmo. La proprietà del suolo è in realtà dei primi abitanti, prima che arrivasse tutto il disastro della colonizzazione, loro sono quelli che dovrebbero reclamare, non gli statunitensi e nemmeno i cubani che sono partiti per l’esilio. 
 
Nella direzione strategica degli Stati Uniti non è magari il punto più forte, ma lo stanno giocando perché costituisce uno strumento per attaccare, affinché la società cubana inizi ad avere paura di perdere tutto quello che ha ottenuto durante la Rivoluzione, come le sue case, la sua previdenza sociale, tutte quelle condizioni meravigliose che ha portato la Rivoluzione, nonostante le carenze. Lì è dove vogliono attaccare affinché lo stesso popolo cubano sia quello che si ribelli ed esiga altre condizioni. 
 
Il popolo cubano ha quell’idea di prosperità che impone il mondo, ma ha anche molto chiaro di che cosa si tratta il conflitto con gli Stati Uniti. Quando si dice imperialismo in Cuba, tutto il mondo si sente riconosciuto. 
 
Credo che non sia facile entrare da questo lato, benché continuino a tentarlo, continuino ad immaginarlo. E la stretta alla gola è aumentare la pressione con la Legge Helms Burton, affinché la paura sia maggiore, affinché incomincino a cedere, come succede in Messico, che per paura dei dazi hanno consegnato agli USA la politica migratoria. Credo che sarà una battaglia dura ma non prospererà perché Cuba non lo permetterà. 
 
Trump ha saltato tutti gli organismi multilaterali, cominciando dall’ONU. Devono cambiare queste leggi che non ci permettono di circolare liberamente per il continente americano, perché credono che è solo casa loro; la definizione è di Jefferson e di Monroe, che credono che questo sia il loro territorio. 
 
Quello che vogliono è ristabilire tutto in un modo distinto, non è la via diplomatica quella che permetterà loro di entrare in America Latina o gli accordi economici. Infatti, questo governo ha dato poca importanza ai trattati commerciali, agli investimenti, comparato con i governi anteriori. Prima vogliono sistemare altre cose, devono riordinare il continente. E l’esempio più doloroso di tutto ciò è proprio Messico. 
 
Lo stanno inabilitando completamente con queste minacce dei dazi e contano con una parte della società messicana, diciamo la classe medio-alta, gli imprenditori, gli stessi delinquenti, i cartelli della droga. Contano su tutti questi attori che lo differenzia dal caso di Cuba e del Venezuela. 
 
Ma bisogna fare attenzione ai tre luoghi, geograficamente sono molto importanti, perché formano il triangolo dei Gran Caraibi. Con questi tre paesi possono scommettere sul controllo generale del continente, anche se c’è il sud, ma la parte fondamentale sono i Gran Caraibi. 
 
Ma penso, che cosa è necessario affinché Cuba vinca questa battaglia senza piegarsi mentre l’offensiva è a spettro completo? 
 
Dove bisogna lavorare? Nelle menti o nel rinvigorimento dello Stato? 
 
Io credo che il tema risiede nelle menti, perché lo Stato è forte. Ha fatto dei cambiamenti, è uno Stato solido che si mantiene come un’istituzione riconosciuta. In nessun modo questa società permetterà che le dicano che il suo territorio, la sua casa, non è sua. Ma dove dobbiamo rinforzare la resistenza in questi casi? 
 
PL: Come lei segnalava, parte della strategia dell’impero è rompere i vincoli di cooperazione tra le nazioni ed a ciò si uniscono i governi nella regione che la sostentano, considera che diminuirà la resistenza dei movimenti sociali e di solidarietà che stanno resistendo alle aggressioni attuali? 
 
AEC: Credo che oggi quello che necessitiamo sono movimenti di battaglia. Le organizzazioni ed i movimenti di solidarietà sono stati molto importanti nei momenti più difficili, per esempio, quando Cuba ha vissuto il Periodo Speciale. 
 
Però credo che la cosa essenziale sia che ognuno dia la battaglia nel suo paese, infatti mi riferivo anteriormente alla capacità dell’impero di mantenere una simultaneità di aggressioni; da qua bisogna anche dare battaglia, non lasciargli spiragli né tempo per riorganizzarsi. 
 
PL: Come si potrebbe aiutare meglio Cuba per contrastare la Legge Helms-Burton? 
 
AEC: Un governo ed un popolo messicani che si ribellano di fronte alle misure di Trump. Che gli dicano, “non accettiamo le tue regole”, “non facciamo quello che stai imponendoci -nel caso degli emigranti – “; “nessuna Guardia Nazionale alla frontiera”. “ci ribelliamo”, “se ci metti dei dazi, faremo lo stesso”, “se ci minacci con questo, anche noi lo faremo.” 
 
Messico è molto importante per gli Stati Uniti, malgrado siamo molto dipendenti in molti sensi. Negli Stati Uniti ci sono più di 15 milioni di messicani che si sentono statunitensi ma anche messicani. 
 
Ogni popolo ha la sua situazione particolare e deve fare la sua battaglia perché nella misura in cui noi accettiamo sottomessi, loro saranno più forti per imporsi su Cuba. 
 
Tutte queste battaglie che hanno caratterizzato i tempi di gran effervescenza in America Latina tra il 1994 ed il 2006, sono stati tempi di lotte molto varie: da una comunità ribellandosi contro l’installazione di una miniera o lo spargimento di rifiuti tossici, in luoghi geograficamente lontani, ma combattendo battaglie simili. 
 
Tutte queste comunità hanno avuto come aspetto interessante che hanno inventato i metodi di lotta e si sono reinventate come soggetto. Ne sono usciti individui diversi. In quel momento c’è stata la necessità di affrontare l’inquinamento, una lotta ecologica, quella che ha difeso Fidel Castro contro l’estinzione della specie umana a Rio de Janeiro. 
 
Penso che quello periodo c’insegnò molte cose, per esempio quello che hanno detto gli Zapatisti, che la loro lotta già esisteva prima che il capitalismo arrivasse. Il capitalismo arriva e dovrà andarsene, in qualche momento. 
 
E noi manteniamo la nostra maniera di pensare, la nostra visione del mondo, non è che sia intoccabile, è messa in discussione permanentemente, ma abbiamo una prospettiva storica distinta rispetto a quelli che sono acchiappati nel capitalismo, nella modernità. Noi veniamo da prima della modernità e la trascendiamo. 
 
Questo ti fa pensare in che possiamo andare oltre il capitalismo, pensare come è la relazione con la natura. Risulta essere una maniera differente di rapportarsi con la natura, perché dominarla è impossibile, qualcosa che il capitalismo ha cercato di fare. 
 
Perché noi, che siamo parte della natura, la lasciamo dominare così, nonostante sappiamo che sarà una catastrofe? 
 
Il capitalismo possiede solo catastrofi. Non può risolvere i problemi che ha generato. E cerca soluzioni ma con gli stessi principi epistemologici, che sono quelli che provocano che non possa risolverli. 
 
Dobbiamo scommettere su una vita distinta: con individui distinti, con chiavi differenti… questo è quello che ci permette contrastare la Legge Helms-Burton, l’amministrazione Trump, i gruppi controrivoluzionari, chiunque. 
 
Se Vietnam ha vinto l’esercito statunitense, perché non lo facciamo anche noi? Ora siamo milioni. Ma questo è un lavoro culturale, da ciò dipende se abbiamo capacità di lottare; non tanto dagli strumenti fisici, bensì da come capiamo questo processo e come assumiamo che bisogna uscirne. 
 
Evelin Pompa, collaboratrice di Prensa Latina

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