Il crollo avvenuto il 5 agosto 2010 nella miniera di San José, situata in una zona desertica a quasi mille chilometri a nord di questa capitale, ha attirato l’attenzione mondiale dopo che si è appreso che gli operai erano vivi ma sepolti a 700 metri di profondità.
Ciò ha generato un dispiegamento internazionale per la loro salvezza fino a quando non sono stati finalmente salvati 69 giorni dopo l’incidente, in un evento senza precedenti, che è stato persino portato sugli schermi cinematografici.
Oggi, 11 anni dopo la tragedia e dopo lunghe rivendicazioni delle persone colpite, la Seconda Camera della Corte d’Appello di Santiago ha concluso che lo Stato aveva mancato al suo dovere di protezione e aveva agito per negligenza, per cui ha ordinato che i querelanti fossero risarciti.
La sentenza indica che se lo Stato avesse ottemperato al proprio obbligo di controllo dell’attività a rischio svolta dalla società mineraria e alla mancanza di evidenti condizioni di sicurezza già anni prima dell’evento, i 33 lavoratori non avrebbero subito l’infortunio.
Le indagini hanno stabilito che, sebbene la miniera di San José avesse tutte le autorizzazioni per operare, “ripetutamente e persistentemente non rispettava i requisiti di base”.
Conclude che per questo motivo, quando sono rimasti intrappolati, i minatori “non hanno potuto essere soccorsi immediatamente, rimanendo a lungo sottoterra, provocando agli operai il danno psicologico accreditato nel processo”