venerdì 17 Maggio 2024
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Fare il giornalista a Gaza significa rischiare la vita”, dice Anthony Bellanger

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Dall'inizio di ottobre a Gaza si è imposta la violenza della guerra. Sono già più di sessanta i giornalisti che fanno parte delle 15mila vittime (al 7 dicembre) di questo conflitto della terra bruciata.

“Sono appena tornato da una visita in Palestina e non avrei mai immaginato che potesse essere un’esperienza così dura”, afferma il giornalista francese Anthony Bellanger, che per otto anni è stato segretario generale della Federazione Internazionale dei Giornalisti (FIP), con sede a Bruxelles, in Belgio, e che conta 600mila iscritti provenienti da 140 paesi.
Ha visitato Ramallah, in Cisgiordania, l’ultima settimana di novembre ed ha anticipato la disponibilità ad organizzare una prossima missione a Gaza non appena le condizioni lo consentiranno. Frutto della sua intervista, possiamo dedurre che il diritto all’informazione è già un’altra vittima ed il giornalismo, lì, significa una professione ad altissimo rischio.
PL: Tra il 21 e il 24 novembre sei stato a Ramallah, nella Cisgiordania palestinese. Quali sono le tue impressioni?

Anthony Bellanger (AB): Anche se ho visitato spesso questa regione per anni, quest’ultima missione organizzata dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti con la nostra affiliata, l’Unione dei Giornalisti Palestinesi, rappresenta un’esperienza molto dura.
L’obiettivo è stato quello di esprimere solidarietà attiva ai nostri colleghi a nome di tutti i tesserati FIP. Ho parlato con i parenti dei giornalisti assassinati; ho trovato un collega amputato; ho ascoltato testimonianze strazianti; ho ricevuto informazioni sulla distruzione degli uffici dei media nazionali ed internazionali; ho trovato giornalisti feriti ed altri che erano stati detenuti nelle carceri israeliane. Tutti esempi di una situazione deplorevole nella pratica del giornalismo.
Abbiamo anche visitato i media a Ramallah, tra cui Palestine Broadcasting Corporation (PBC), Al Jazeera, Al Arabia TV, Nisaa FM, Ajyal Radio Network e la redazione del quotidiano Al-Ayyam. Tutti questi scambi hanno dimostrato quanto sia atroce la vita quotidiana dei giornalisti palestinesi, sia in Cisgiordania che a Gaza. Quando non vengono molestati, minacciati o feriti dall’esercito israeliano, non possono coprire gli eventi perché interrompono il loro segnale di Internet.
Durante il viaggio ho proposto un incontro con loro all’ufficio stampa del governo israeliano, ma nessuno ha risposto. Avevo già provato a contattare le autorità israeliane, senza successo. Devo ricordare che lo scorso ottobre la FIP ha pubblicato una dichiarazione firmata da 70 dei suoi membri con la quale chiedevamo al governo di Israele di rispettare pienamente il diritto internazionale umanitario e la legislazione internazionale sui diritti umani. E abbiamo chiesto che agisca per prevenire la commissione di qualsiasi crimine contemplato dal diritto internazionale, compresi i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità ed il genocidio, nonché l’incitazione a commetterli.
Dal 7 ottobre, data del micidiale attacco di Hamas, seguito dalla sanguinosa risposta dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, mai prima nella storia recente, la professione aveva vissuto un simile massacro in un periodo di tempo così breve. Al 5 dicembre sono stati assassinati più di 60 giornalisti, per lo più palestinesi, ma anche israeliani e libanesi. È un vero incubo. Ho una sensazione molto amara: sono stato lì tre giorni, ma quei giornalisti e quelle giornaliste continuano a vivere e lavorare in questa brutale realtà quotidiana di guerra e morte.
PL: Questo sentimento significa anche una relativa impotenza?

AB: Soprattutto non posso fare a meno di provare un’emozione fortissima. Gli addetti stampa che continuano a lavorare in Palestina, in particolare a Gaza, svolgono le loro riunioni editoriali al mattino, ma non sanno cosa succederà pochi minuti dopo o tra un paio d’ore. Non possono essere sicuri se rimarranno in vita o se si aggiungeranno alla già enorme lista di coloro che sono morti dal 7 ottobre. Molti di loro furono vittime di bombardamenti massicci. Altri sono stati bersaglio di attacchi militari selettivi da parte delle forze armate israeliane. Mi commuove pensare che il loro destino sia stato il risultato della loro decisione di informare, cioè di esercitare uno dei diritti umani essenziali. Coloro che continuano a lavorare nella Striscia di Gaza continuano anche ad affrontare enormi rischi per proteggere informazioni che attualmente sono minacciate, ma rimangono essenziali. Mantengono sempre quella volontà di compiere la loro professione. E mi colpisce anche, e lo ribadisco mille volte, che questi colleghi sono civili, non militari; sono professionisti ed esseri umani come noi.
PL: Il 1° dicembre, dopo una settimana di cessate il fuoco che ha portato un parziale sollievo alla popolazione palestinese, Israele ha ripreso i bombardamenti contro Gaza, con il corollario di centinaia di nuove vittime. La tua valutazione?

AB: Noto che rimane una situazione inimmaginabile, che non ha paragoni con altri conflitti, soprattutto per l’impatto diretto sulla popolazione civile e, in particolare, sulle ragazze e sui ragazzi, poiché nessuno può entrare o uscire da Gaza. È una prigione a cielo aperto che è stata trasformata in una grande fossa comune. Quanto alla stampa, dall’inizio di ottobre si conta in media un morto al giorno. Ci stiamo avvicinando al numero di giornalisti assassinati durante l’intera guerra del Vietnam. Altri scontri brutali in Medio Oriente non hanno raggiunto l’intensità di quello attuale in termini di impatto sulla stampa.
Nonostante tutto, rimaniamo convinti di continuare a lottare per la pace e a sostenere i nostri membri, rafforzando gli sforzi con le organizzazioni internazionali. Durante la mia visita, insieme ad una delegazione del sindacato palestinese, abbiamo incontrato a Ramallah il direttore dell’ufficio dell’UNESCO, l’agenzia delle Nazioni Unite responsabile della protezione e della sicurezza dei giornalisti. Hanno assicurato la prossima consegna di kit di pronto soccorso, batterie di telefoni cellulari, giubbotti antiproiettile ed elmetti. Si sta valutando la futura installazione di una “casa sicura” a Khan Younis, nel sud di Gaza, in modo che i giornalisti possano lavorare in un ambiente protetto.
PL: Un pensiero finale?

AB: Ripeto ancora una volta che il dovere della Federazione Internazionale dei Giornalisti è quello di stare al fianco dei suoi membri; in questo caso, giornalisti palestinesi, sia in Cisgiordania che a Gaza. Chiediamo un cessate il fuoco definitivo. Questo massacro deve cessare immediatamente e ribadiamo al governo israeliano che deve rispettare il diritto internazionale e proteggere i civili, compresi i giornalisti. La solidarietà è al centro delle nostre azioni e continueremo a lavorare con le Nazioni Unite e i suoi affiliati per garantire un futuro dignitoso alla stampa ed al diritto all’informazione.

Sergio Ferrari, collaboratore di Prensa Latina

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