Dalla sua tappa come candidato repubblicano il capo della Casa Bianca ha segnalato il suo interesse nel designare in questo modo il disputato territorio e muovere l’ambasciata nordamericana dalla sua ubicazione attuale in Tel Aviv verso Gerusalemme, un processo per il quale ha già ordinato di cominciare i preparativi.
Con questo passo, Trump ha completamente cambiato una posizione mantenuta per decadi dalle amministrazioni nordamericane che, nonostante il loro appoggio costante a Israele, hanno evitato di dichiarare come capitale la Città Santa, nella cui parte orientale i palestinesi vogliono stabilire il centro di un futuro Stato.
Dopo l’annessione israeliana di quell’area dell’urbe nel 1980, l’ONU ha fatto un appello alla comunità internazionale per ritirare le missioni da questa parte del territorio, e la sovranità di Israele su questa zona non è riconosciuta dalla maggioranza delle nazioni dell’orbe.
Una legge statunitense del 1995 sollecita Washington a trasportare la sua ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, ma questa misura non è stata mai applicata, perché gli ex presidenti William Clinton, George W. Bush e Barack Obama hanno posticipato ogni sei mesi la sua implementazione allegando danni agli interessi nazionali nordamericani.
In dichiarazioni offerte martedì alla stampa come preambolo dell’annuncio, funzionari del governo si sono riferiti alla decisione del presidente come il riconoscimento di una realtà storica e moderna.
Allo stesso tempo hanno affermato che, secondo Trump, l’annuncio non pregiudica le prospettive per un processo di pace nella regione, a dispetto delle avvertenze dei palestinesi sulle sue gravi conseguenze nel futuro delle negoziazioni con Israele.
“Il presidente crede che questo è il momento adeguato ed il passo adeguato da dare, specialmente rispetto alle sue speranze che possa raggiungersi un accordo di pace”, ha detto una delle fonti, ma il resto del mondo non sembra coincidere con questo criterio.
Mezzi statunitensi hanno informato che questo martedì Trump ha conversato telefonicamente sulla sua decisione col presidente palestinese, Mahmoud Abbas; l’egiziano, Abdel Fattah el-Sisi; ed i re Salman bin Abdulaziz, dell’Arabia Saudita, ed Abdullah II, della Giordania.
Ognuna di queste figure espresse la sua opposizione al piano del governante repubblicano e gli hanno fatto notare che metterà in pericolo la stabilità regionale e le speranze di pace nel futuro prevedibile.
Abbas ha affermato che continuerà in contatto coi leader mondiali per evitare l’azione inaccettabile, come ha diffuso il suo portavoce Nabil Abu Rdineh in un comunicato.
“Una decisione così scatenerà l’odio nel mondo arabo ed islamico, aizzerà la tensione e metterà in pericolo gli sforzi di pace”, ha detto domenica il ministro giordano degli Affari Esteri, Aiman Safad, che ha conversato col suo omologo statunitense, Rex Tillerson.
In vari incontri sostenuti questo anno con Abbas ed il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu, il repubblicano ha detto di essere impegnato a raggiungere la pace nel prolungato conflitto.
Tuttavia, segnalò The New York Times, la sua decisione di inclinare la bilancia verso Israele in questo tema critico, quasi con certezza farà che sia più difficile da giungere un accordo ed aumenterà i dubbi sull’onestà ed equità degli Stati Uniti come intermediario nelle conversazioni.
Martha Andres Roman, corrispondente di Prensa Latina in Washington